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Categoria: Approfondimenti

Quesito tributario n. 348-2014/T - RINUNCIA DEL CONIUGE ASSEGNATARIO A DIRITTO DI ABITAZIONE EX ART. 155-QUATER C.C.

Fonte:  CNN Notizie del 1° luglio 2014

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Si chiede se sia corretto il comportamento dell’Agenzia delle entrate locale che, a seguito di registrazione per adempimento unico, di atto gratuito di rinuncia a diritto di abitazione da parte del coniuge assegnatario, ritenendo erroneamente liquidate le imposte, procede, mediante avviso di liquidazione di imposta principale c.d postuma, a recuperare l’imposta di registro di cui all’art. 1 della tariffa parte prima così come modificata dall’art. 10 del d.lgs. n. 23/2011.

Premesso che in questa sede, volutamente si prescinde dalla questione di carattere squisitamente civilistico relativa alla rinunciabilità o meno a tale diritto (cfr. Trib. Matera 27 novembre 2007, in Giur. Merito, 2008, 1609) e, nel caso, alla necessità che la revisione degli accordi finalizzati alla regolazione dei rapporti tra i coniugi avvenga comunque mediante provvedimento giudiziale, è ormai consolidato, in dottrina e in giurisprudenza, che il diritto di abitazione che il provvedimento del giudice, ispirato ad un interesse pubblico di conservazione dell’habitat familiare a favore dei soggetti più deboli della separazione e del divorzio (1), attribuisce al coniuge assegnatario della casa coniugale, è un diritto personale di godimento (tra le molte si segnalano Cass. SS.UU. n. 11096/2002; Cass. SS.UU. n. 13603/2004; Cass. n. 1545/2006; Cass. 16398/2007).

In merito appare utile ripercorrere, sulla scorta delle argomentazioni della Cassazione a sezioni unite n. 11096 del 2002, l’evoluzione del diritto e della giurisprudenza riguardo tale istituto, al fine di porre in evidenza che la formalità di trascrizione prevista per tale diritto ha unicamente una finalità di garanzia per il coniuge assegnatario e non incide in alcun modo sulla natura del diritto.

Il testo originario degli artt. 155 e 156 c.c. non prevedeva, tra i provvedimenti da adottare a tutela del coniuge e della prole, l'assegnazione della casa familiare, e la giurisprudenza era generalmente orientata a negare la configurabilità del diritto del coniuge non proprietario e non titolare del rapporto di locazione ad occupare l'alloggio dopo la separazione, sul rilievo che in assenza di una specifica disposizione di legge che autorizzasse il giudice ad un tale tipo di intervento il coniuge titolare del diritto reale o personale non poteva essere privato del godimento del bene di sua proprietà né obbligato a mettere l'immobile locato a disposizione dell'altro. Soltanto il legislatore della riforma del diritto di famiglia introdusse (2), al quarto comma dell'art. 155 c.c., il principio secondo il quale "l'abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli", senza tuttavia darsi carico della questione della opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione (3).

In dottrina era sorto un vivace dibattito in ordine alla natura giuridica dell'assegnazione ed alle conseguenti implicazioni in tema di efficacia del provvedimento giudiziale nei rapporti tra i coniugi e nei confronti dei terzi. Alcuni Autori ritennero che il diritto sul bene assegnato si configurasse come un diritto reale di abitazione, in quanto tale tutelabile erga omnes, così da risolvere in radice il problema della opponibilità ai terzi attraverso il richiamo alle regole generali in tema di trascrizione dei diritti reali. Tale tesi fu tuttavia fortemente criticata da altri Autori e dalla giurisprudenza, osservando che i modi di costituzione dei diritti reali sono tassativamente previsti dalla legge e che non può costituirsi per provvedimento del giudice un diritto reale di abitazione. La corte di Cassazione ebbe a precisare che trattandosi peraltro di un diritto “condizionato, nella sua esistenza, da criteri preferenziali e di mera possibilità e, nella sua durata, da circostanze accidentali” era connotato in termini tali da renderlo incompatibile con gli schemi delle situazioni giuridiche reali (così Cass. n. 5082/1985; n. 3934/1980; Cass. SS.UU. n. 11096/2002).

Nella molteplicità delle posizioni dottrinali, orientate ora per la configurabilità di un comodato dalla durata determinata per relationem, con riferimento al venir meno delle condizioni fattuali inducenti all'assegnazione, e quindi fortemente mutilato dei propri profili distintivi, come quello relativo all'obbligo di restituzione nei casi di cui agli artt. 1804 comma 3 e 1809 comma 2 c.c., ora per la ravvisabilità di una locazione costituita per effetto di un provvedimento giudiziale, pur mancante dell'elemento essenziale del corrispettivo per l'utilizzazione dell'immobile, ora per la individuazione di un diritto personale sui generis, ora per un diritto personale di godimento a titolo di mantenimento dovuto ai figli ed al coniuge separato, ora infine per un diritto personale di godimento variamente segnato da tratti di atipicità, la giurisprudenza della Cassazione si espresse per la qualificazione della fattispecie quale diritto personale di godimento, pur evidenziandone l’atipicità (Cass. n. 11096/2002; Cass. SS.UU. n. 13603/2004; Cass. n. 1545/2006; Cass. 16398/2007; Cass. n. 529/1999; Cass. n. 7680/1997; Cass. n. 11508/1993; Cass. n. 13126/1992).

Il legislatore del 1987 intervenne su diversi fronti al fine di risolvere le questioni applicative che apparivano più urgenti: estese al caso di divorzio l'assegnabilità della casa coniugale e introdusse - dandosi carico del diffuso orientamento giurisprudenziale circa la inopponibilità ai terzi, sulla base della normativa vigente, della situazione giuridica del coniuge assegnatario - uno strumento di tutela all'assegnatario stesso nelle ipotesi di alienazione a terzi dell'immobile da parte dell'altro coniuge proprietario, disponendo che detta assegnazione, "in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell'art 1599 c.c." (4).

Le perduranti incertezze circa l'applicabilità del principio innovativo introdotto nella novella alle ipotesi di assegnazione della casa coniugale nelle cause di separazione indussero a sollecitare l'intervento della Corte Costituzionale, che con la nota pronuncia n. 454 del 1989 dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 155 comma 4 c.c. nella parte in cui non prevedeva la trascrizione del provvedimento di assegnazione al coniuge separato affidatario della prole ai fini dell'opponibilità ai terzi, ritenendo del tutto ingiustificata la difforme disciplina dettata dalla norma denunziata e da quella di cui all'art. 6 comma 6 della legge n. 74 del 1987, "ispirate all'eadem ratio dell'esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale della prole", rispetto al quale è strumentale il diritto del coniuge alla abitazione, e quindi ravvisando la violazione del principio di uguaglianza nella diversità di trattamento riservata ad una situazione assolutamente identica (5). Con un'ordinanza dell'anno successivo (n. 20/1990), di manifesta inammissibilità della medesima questione di costituzionalità dell'art. 155 comma 4 c.c. già decisa, la Corte Costituzionale ebbe a fornire “un’interpretazione autentica” della precedente sentenza, all'evidente scopo di apportare un contributo di chiarezza al dibattito in corso, affermando che "appare chiaro, dalla motivazione della sentenza citata, come l'onere di trascrivere il provvedimento d'assegnazione nel caso di separazione, in analogia con la normativa vigente in materia di scioglimento del matrimonio, riguardi, ex art. 1599 del codice civile, la sola assegnazione ultranovennale, ferma restando l'opponibilità del provvedimento in tutte le altre ipotesi".

In particolare, l'esigenza di assicurare l'effettività del godimento dell'assegnatario, dando attuazione concreta ad una pronunzia diretta ad incidere non solo o non tanto sul bene attribuito, ma sulla qualità della vita e sulla serenità dei soggetti deboli del nucleo familiare in crisi, ha chiaramente indirizzato la scelta legislativa ad una tutela avanzata della posizione di detti soggetti rispetto alle contrapposte esigenze innanzi richiamate, accordando al coniuge assegnatario un titolo legittimante comunque opponibile al terzo successivo acquirente, senza soluzione di continuità dal momento dell'emissione del provvedimento, così da porlo al riparo da iniziative dell'altro coniuge proprietario idonee a frustrare anche immediatamente la statuizione del giudice. Secondo tale linea ricostruttiva anche l'espressione "in quanto trascritto" finisce per assumere un preciso significato ed una duplice funzione, in quanto, a fronte del principio di tipicità degli atti trascrivibili, e tenuto anche conto del richiamato orientamento giurisprudenziale che inquadrava l'assegnazione della casa familiare tra i diritti personali di godimento, riflette la volontà del legislatore di riconoscere al relativo provvedimento la natura di titolo idoneo alla trascrizione, così configurando una nuova tipologia di atti trascrivibili (6).

Dall’esame della giurisprudenza della Corte di cassazione emerge allora chiaramente che il diritto di abitazione, riconosciuto al coniuge in conseguenza dell’assegnazione della casa coniugale, è un diritto personale di godimento, la cui trascrivibilità deve essere ricondotta unicamente allo scopo di tutelare la posizione del coniuge rispetto ai terzi. Tale diritto di abitazione del resto non integra una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio, ma svolge una essenziale funzione di tutela dei figli.

Sulla base di queste considerazioni di carattere generale, la rilevanza tributaria della rinuncia a tale diritto sembra doversi circoscrivere nei seguenti termini.

E’ certamente da escludere la legittimità del recupero dell’Agenzia delle entrate in forza dell’art. 1 della tariffa parte prima allegata al d.p.r. n. 131/1986, testo unico dell’imposta di registro, così come modificato dal citato art. 10, poiché esso concerne unicamente “atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e i trasferimenti coattivi”. Più precisamente, che la rinuncia a diritti disciplinata dal citato art. 1, per equiparazione, concerna solo quel negozio unilaterale abdicativo che abbia ad oggetto beni immobili e diritti reali immobiliari di godimento ne sono conferma sia il dato testuale dello stesso art. 1 laddove specifica “agli stessi”, sia il necessario coordinamento dell’art. 1 con il successivo art. 2 che prevede l’applicazione del 3% agli “atti di cui al primo comma dell’art. 1 [tra cui appunto la rinuncia] relativi a beni diversi da quelli indicati nello stesso articolo e nel successivo art. 7”.

Pertanto, in considerazione della natura del diritto di abitazione de quo, si deve inequivocabilmente escludere che la rinuncia allo stesso comporti applicazione del citato art. 1 della tariffa parte prima.

Tale ricostruzione pare indirettamente confermata dalla circostanza che agli effetti fiscali, ad esempio in materia di IMU, il legislatore ha dovuto espressamente prevedere una deroga circa il profilo soggettivo del tributo per consentire l’applicazione dello stesso al coniuge assegnatario (art. 4, comma 12-quinquies, del D.L. n. 16/2012); nonché dalla recente statuizione della Corte di cassazione per cui l’assegnazione della casa coniugale non costituendo trasferimento di diritti reali, non comporta la revoca dei benefici prima casa (Cass. n. 3753/2014).

Occorre allora conseguentemente prendere in rilievo l’applicabilità alla fattispecie del citato art. 2, anche in rapporto al regime tributario cui assoggettare gli atti gratuiti, in quanto spesso (come del resto nel caso di specie) la rinuncia a diritti è negozio “muto” quanto alla causa.

Se infatti si ammettesse che tale rinuncia a diritto di abitazione possa configurarsi come negozio gratuito, essa dovrebbe essere assoggettata al regime dell’imposta sulle donazioni per effetto di quanto disciplinato dall’art. 2, commi 47 e seguenti del d.l. n. 262/2006, così come modificato per effetto della legge di conversione L. n. 286/2006.

In merito si ricorda che la stessa Agenzia delle entrate nella ris. n. 25/E del 2007 ha concluso nel senso che “l’art. 2, comma 47, individua l'ambito di riferimento dell'imposta, stabilendo che la stessa si applica sui <... trasferimenti di beni e diritti per causa di morte per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione>. Dall'ampia dizione della norma citata, discende che gli atti a titolo gratuito che comportano trasferimenti di beni e diritti sono attratti nel campo applicativo delle disposizioni dell'imposta sulle successioni e donazioni, indipendentemente dal fatto che sottendano l'animus donandi.

Ed infatti, il secondo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 346/1990 prevede che “si considerano trasferimenti anche la costituzione di diritti reali di godimento e la rinunzia a diritti reali o di credito e la costituzione di rendite o pensioni”. Pertanto, anche nel contesto dell’imposta sulle successioni e donazioni la rinuncia a diritti può assumere rilievo sia che abbia ad oggetto diritti reali che diritti di credito, fermo restando che solo la rinuncia ai primi può ovviamente determinare l’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali.

Tutto ciò considerato, l’alternativa interpretativa circa la tassazione della rinuncia al diritto di abitazione de quo sembrerebbe restringersi, proprio in ragione della natura del diritto stesso quale diritto di godimento, all’art. 2 della tariffa parte prima dell’imposta di registro e all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 346/1990, fermo restando che la mancata evidenziazione di una causa onerosa farebbe propendere, in forza della citata risoluzione dell’Agenzia delle entrate, per la tassazione degli atti liberali.

Tuttavia, a ben riflettere, se il diritto di abitazione – per consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione – non integra una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio, ma svolge una essenziale funzione di tutela dei figli, essa non può neanche considerarsi un diritto suscettibile di valorizzazione agli effetti dell’applicazione delle imposte indirette dovute o in ragione del trasferimento o in ragione delle formalità necessarie. Ed infatti, l’effetto della rinuncia al diritto di abitazione de quo non importa una riespansione del diritto della piena proprietà come nel caso della rinuncia al diritto di usufrutto (in quanto i relativi diritti di proprietà erano e si confermano pieni), ma consente solo una commercialità del bene senza la relativa trascrizione del diritto di abitazione (trascrizione – si badi bene – atipica poiché unicamente prevista a scopo di evidenza del “vincolo di destinazione funzionale”).

Queste ultime riflessioni sollecitano inoltre ad una diversa possibile opzione interpretativa in forza della quale sarebbe legittimo ricondurre anche la rinuncia al diritto di abitazione a tutti quegli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o revisione degli assegni di cui all’artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 che sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa. Del resto anche di recente la stessa Agenzia delle entrate ha confermato (circ. n. 2/E del 2014, ma già circ. n. 27/E del 2012) che “tali disposizioni di favore si riferiscono a tutti gli atti, documenti e provvedimenti che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare i rapporti giuridici ed economici <relativi> al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso”.

Valeria Mastroiacovo

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  1. Ed è proprio il convincimento ormai maturato nell'esperienza giurisprudenziale che detta misura non integri una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio, ma svolga una essenziale funzione di tutela dei figli, che consente di ritenere del tutto superate alcune posizioni della giurisprudenza pregressa, che sulla ricostruzione dell'istituto in chiave di modalità attuativa dell'obbligo di mantenimento fondava l'affermazione di inopponibilità al terzo, e di inscrivere l'assegnazione della casa, come è stato efficacemente affermato in dottrina, nell'ambito del "regime primario" della famiglia (così Cass. SS.UU. n. 11096/2002).

  2. Un'analoga previsione non era peraltro contenuta nella legge sul divorzio n. 898 del 1970, che al terzo comma dell'art. 6 si limitava a disporre che "l'affidamento e i provvedimenti riguardanti i figli avranno come esclusivo riferimento l'interesse morale e materiale degli stessi". Tale disarmonia del sistema dette luogo nella giurisprudenza di questa Suprema Corte a contrastanti orientamenti circa l'attribuibilità dell'abitazione anche nel giudizio per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, in applicazione dell'art. 155 comma 4 c.c., per effetto del rinvio operato dall'art. 12 della legge n. 898 del 1970.

  3. Con la successiva legge n. 392 del 1978 sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani fu accordato uno strumento di tutela all'assegnatario nell'ipotesi di abitazione condotta in locazione, con la previsione all'art. 6 comma 2 - che peraltro recepiva un principio in qualche misura già espresso nell'art. 2 bis del decreto legge 19 giugno 1974 n. 236, introdotto con la legge di conversione 12 agosto 1974 n. 351, in materia di locazione di immobili urbani soggetti a regime vincolistico - della successione per legge del coniuge assegnatario nella titolarità del contratto di locazione, sia nel caso di separazione che in quello di divorzio. Pertanto emergeva una evidente disparità di trattamento del coniuge assegnatario di unità abitativa di proprietà dell'altro coniuge rispetto al coniuge assegnatario di immobile locato, ritenendosi generalmente in giurisprudenza che la disciplina in tema di locazioni non fosse analogicamente applicabile nelle ipotesi innanzi considerate (v. Cass. 1985 n. 5082), e che anzi il diritto di abitazione si estinguesse con la vendita a terzi dell'immobile (così Cass. 1986 n. 624).

  4. Significativi elementi per l’interprete emergono dallo svolgimento del dibattito parlamentare in sede di approvazione della legge n. 74 del 1987. Risulta invero dai lavori preparatori che nella discussione in Senato, ad un primo emendamento tendente ad applicare integralmente, con l'espressione "l'assegnazione è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell'art. 1599 c.c.", il regime previsto dalla norma richiamata, al dichiarato fine di "omologare la posizione del genitore affidatario dei figli a quella di un qualunque conduttore", avuto riguardo alla tutela già apprestata all'assegnatario dalla legge n. 392 del 1978 nei confronti del terzo proprietario locatore, fu aggiunto con un subemendamento l'inciso "in quanto trascritta": detto inserimento fu determinato dall'enunciato proposito di dissipare ogni dubbio - che la previsione contenuta nel primo comma dell'art. 1599 c.c. di una opponibilità limitata al novennio in assenza di trascrizione poteva in qualche misura alimentare, in un sistema improntato al principio di tassatività - circa la trascrivibilità del provvedimento giudiziale.

  5. L'intervento additivo del giudice della legittimità delle leggi, se consenti di realizzare la fondamentale esigenza di omogeneità di disciplina tra i due regimi, non valse tuttavia a dissipare le incertezze in ordine alla effettiva portata del richiamo all'art. 1599 c.c. contenuto nell'art. 6 comma 6 della legge sul divorzio. Ed invero la mancanza di ogni riferimento, in quella pronuncia a tale disposizione, e per converso il passaggio argomentativo con il quale si richiamava la opponibilità "mediante trascrizione" al terzo acquirente, indussero alcuni commentatori a ritenere che nella prospettiva del giudice della legittimità delle leggi la pubblicità costituisse l'unico sistema per la soluzione dei conflitti tra coniuge beneficiario del provvedimento e terzi acquirenti, con esclusione di ogni altro criterio di selezione, come quello della priorità temporale, tra titolari di diversi diritti. A tale lettura si oppose convincentemente da altri che l'intervento della Corte di legittimità andava inteso come diretto unicamente ad eliminare la discriminazione tra la tutela del coniuge affidatario separato e quella accordata al divorziato, e non a controllare la legittimità della specifica disciplina dettata dall'art. 6 n. 6 della legge sul divorzio, così che nessun elemento a favore dell'una o dell'altra scelta interpretativa era possibile desumere da detta pronuncia.

  6. Al tempo stesso questa ricostruzione vale a confermare che l'opponibilità dell'assegnazione nei confronti del terzo acquirente non è solo quella infranovennale, ma anche quella di durata maggiore, ove vi sia trascrizione, finché perduri l'efficacia della pronunzia giudiziale (va al riguardo rilevato che tipologie di atti soggetti a trascrizione con efficacia indeterminata nel tempo sono già previste ai n. 10 e 11 dell'art. 2643 c. c.).